venerdì 27 settembre 2013

DONATELLA ZANELLO POETA DELLA NATURA, DELLO SPIRITO, DELLE PASSIONI, AUTRICE DELLA SILLOGE " PASSIFLORA": recensione a cura di Luigi Leonardi

Sala CarGià - Promozione Arte e Cultura 2013: sezione poesia.

Martedì  20 Agosto 2013 alle ore 21.00 al Castello di S. Terenzo, nell’ambito della “Settimana della Cultura” dedicata a Vasco Bardi, manifestazione a cura della Dr.ssa Maria Letizia Stangalino con il patrocinio del Comune di Lerici, Donatella Zanello ha presentato il libro di poesie “Passiflora”, prefazione di Cristiano Mazzanti, Ed. Ibiskos di Alessandra Ulivieri, 2006. Lo scrittore Luigi Leonardi ha presentato il libro attraverso una dettagliata recensione dialogando con  l’autrice che ha letto le proprie liriche. All’ interno del castello erano esposte le opere della pittrice Anna Lupi.



Donatella Zanello, autrice della silloge “Passiflora”, si presenta, in veste metafisica, con particolaresensibilità, quale poeta della natura, dello spirito, delle passioni.
La sua poesia è estremamente legata al mare, ma non solo. Il mare nei suoi misteri abissali,
nelle sue inquietudini notturne. Il mare calmo nell’abitudine della risacca, o tempestoso come le passioni, o libero nel suo immenso, o mistico nei tramonti. Il mare origine di vita.
E’ una religiosità quella di Donatella per il mare: un legame profondo con questo elemento dominante.

Ricerca di libertà

Le poesie di Donatella Zanello sono quadri dipinti con le parole, sotto le quali sta la sostanza prima della nostra conoscenza. Sono parole scritte nello stile di un romanticismo sobrio, assorbito da un lieve decadentismo. Si avverte una struggente malinconia. Un certo tipo di espressionismo esalta la zona emotiva della realtà ma anche quella dei sensi. L’anima vede la realtà secondo la sua interpretazione. E’ una soggettività che sfocia quasi sempre in lirica. L’anima è colpita dalla realtà e la traduce attraverso il proprio stato psichico. Ed è sempre, comunque, una fuga, un bisogno di ricerca di libertà.
La silloge si apre con “Risveglio”, un’aperta dichiarazione di sofferenza fisica; si avverte il peso della gravità; la vita dolora nel corpo.

“Solo il sentimento/ apre le porte/ all’eterno, al vero”.

Si cerca rifugio o consolazione nell’anima, nel sentimento. Ci si vuole sentire liberi, perlomeno dalla mondanità, se ritenessimo la pura libertà irraggiungibile. Dato che sulla plaga terrena la libertà di pensiero è frantumata da ideologie assolutistiche, forse essa è prerogativa dei poeti. Si cerca la libertà immergendosi nella natura, in un’armonia di fenomeni alieni da ogni compromesso umano e divino. Ecco quindi i marosi e il peschereccio e il volo dei gabbiani e le Rosse illuminate a Portovenere. E’ un’esigenza di spiritualità, senza il peso della vita; l’anima prigioniera del corpo in cerca della sua libertà.

Solitudine

La fede nella natura sembra tuttavia non bastare al poeta. C’è bisogno di una fede più forte, una fede oltre la luce? E’ inquietudine. Petrarca naufraga nell’angoscia di non saper trovare la strada giusta verso il bene. E’ una ricerca di “cessazione di tormento”che avverrà solo con l’abbandono delle passioni terrene. E’ l’inquietudine petrarchesca, causata essenzialmente da uno dei sette vizi capitali: l’accidia, per lui una specie di pigrizia spirituale. Ora, con la poesia “Solitudine”, Donatella esprime questa condizione:
“Ci sono treni che volevo prendere..parole che non ho detto…cose che non ho potuto fare.”
Non spiega perché queste cose non sono state fatte, poiché intuisce qualcosa…un’inquietudine ancora più terribile:
“Casuale/la vita è casuale.”
Ovvero la volontà è fuori dalla portata umana. In questa poesia si cammina su una spiaggia infinita dove si percepisce l’assenza, o meglio ciò che diventerà assenza.
“Sono sola/un punto qualunque/nell’universo.”
Unica impressionante certezza cartesiana, l’infinito vuoto, l’essenza della solitudine.
Tutto sembra perdere senso nella poesia “Solitudine un lieve gesto”, dove le categorie gnoseologiche non bastano alla comprensione umana. E’ inutile aggrapparsi alle cose perché “anche i giorni sai, sono temibili / quando scivolano in un tremendo silenzio.”
Dicevo dell’eredità di pensiero da Leopardi a Quasimodo a Pavese e in questo brano ne riscontriamo l’atemporalità. Prendiamo la poesia “Il Lete” di Baudelaire: “nulla può l’abisso del letto tuo per inghiottire i placati singhiozzi”. Non c’è forza alcuna che possa lottare contro la nostra condizione già data; impossibile modificarla. Scrive Donatella:
“Che importano le voci/nell’invisibile,quando anche le nostre parole/avessero un senso come un fiume…”C’è la sicurezza spietata che nulla possiamo contro la “necessità”ovvero il destino: “Mi addormento e sogno l’impossibile”.
E’ cercare l’oblìo, è cercare ciò che non c’è ma comunque abbandonarsi e dimenticare. Anche Baudelaire lo cerca: “e dentro i baci tuoi scorre l’acqua del Lete”. Il Lete, ilo fiume dell’oblìo.”

Le  Passioni

Passifloraè la poesia che titola la silloge. La sua etimologia indica sofferenza, pena, includendo il sacrificio. Passiflora è il fiore della passione; le sue caratteristiche ci ricordano la corona di spine, il crocifisso di Cristo. Qui il poeta vuole rendere omaggio ai fiori, suo amore quasi ossessivo come il mare. Perché c’è un legame che risale fin dall’infanzia, quando un libro sui fiori le venne regalato dai suoi genitori. Il tema principe affrontato è la passione. Una ricerca sulla passione umana.
Le passioni sono pulsioni di sangue, di nervi, di muscoli: sono gli dèi che agiscono su questi. Ci dominano e ci tengono dentro la vita.
“Noi ci amiamo/in uno schianto/di dolore”. Ci amiamo sapendo di perderci; amiamo intensamente consapevoli della fine. Questo è lo schianto di dolore. La gioia inseguita e magari raggiunta si amalgama con la sofferenza. Siamo “per-la-morte”. Ed è un’esistenza autentica, secondo il pensiero heideggeriano, dove la vita è pervasa dall’angoscia della nostra finitudine. Nella nostra società, dove si cerca la curiosità e non la conoscenza, la morte viene rimossa. Ma ciò è l’aspetto più in autentico dell’esistenza.
“Siamo due poveri folli/che si amano/in una prigione”.
Folli, perché lottano contro l’ineluttabile; ciechi che si cercano nella cecità e vogliono dominare sapendo di essere dominati. “Così il buio infinito traversano, fratello dell’eterno silenzio”scrive Baudelaire sui ciechi additandoli quali condannati dalla natura. E metaforicamente i versi di Donatella qui suonano:
“Siamo due ciechi/che si cercano/brancolando nelle tenebre.
Siamo due condannati a morte/che si amano/per l’ultima volta.”
“Ho chiuso al silenzio/le porte delle stelle.”
Qui, dunque, il significato dell’amore per il poeta assume il sapore di una sfida: amarsi è una sfida sapendo di dover perdere. E anche per tutto il resto la vita incombe con aria di tragedia. Il dolore di perdere la persona amata, la brevità del nostro tempo, la bellezza effimera… per questo la reazione con l’idea della bellezza, l’idea dell’amore, l’idea dell’eternità. L’uomo, soprattutto il poeta, vuole andare oltre afferrando emozioni, trasmettendo emozioni….amplificando il quotidiano.
“…quando l’alba solleva le onde/ lungo la riva del mare.”
A Tellaro rivedo/ il glicine avvolto alla terrazza / ondeggiare nel vento”
“Sento il rumore del mare/ricordo il salmastro/che sfiora la vela”.
Riemerge dallo sgomento, in “Piccola voce”, la speranza di continuare a vivere con una certa vitalità, anche se la strofa centrale resta gonfia di inquietudine. Il poeta non sa e anche questa è una certezza come la sua esistenza; è un sapere socratico: sa di non sapere. Ma sa pure di avere un rifugio; sa che comunque il suo sangue non scorrerà indifferente e rassegnato. Se prendiamo la prima e l’ultima strofa di questa poesia e i versi della successiva “Sonia”, dedicata alla figlia, scopriamo un’anima che si scuote dalla chiusura, dalla condanna, dal silenzio. Non è tanto un riscatto o una rivincita sulla caducità, sulla follia delle passioni, sul destino della morte, quanto un abbandono alla dolcezza, a un presente gratificante e sicuro, ancora lontano dallo scomparire.

Il senso del divenire

“Credo a ciò che vedo / Credo a ciò che sento / Ho fede nella luce.”
Sono gli ultimi versi de “L’isola dei pirati” dove l’autrice mette in evidenza la sua vera fede. In questo brano si evoca la figura del nonno navigante, vista in un immaginario positivo come un misterioso personaggio di fantasia. L’isola d’Elba, di cui la famiglia del nonno è originaria, è l’isola dei pirati e lui fa parte di questo mondo. Lui vive quel mondo altro che è il mare, dove si sta via per anni da casa; dove la vita ha un’altra dimensione. Quando il nonno torna racconta storie di luoghi lontani, avventure come in  favola. Poi scompare per riprendere le onde dell’immensa distesa, che come lui perpetuano quell’infinito andare e tornare, quell’emergere e scomparire. Il mutare incessante dell’esistenza.
Il tutto resta attaccato a una specie di segreto ancestrale, che solo si coglie nell’intuizione. Un’intuizione non tanto di fede mistica, quanto una sorta di religioso assioma. Una verità incontrovertibile che appunto respira intensamente negli ultimi versi. E’ un guizzo nella “Physis” aristotelica, dove la verità si riconosce nella luce, indicando la fede nella natura, ossia ciò da cui si nasce. Physis, perché la sua radice significa luce, l’essere nel suo apparire. Si entra nel pensiero profondo,dove l’anima esprime il suo primo significato: “ànemos”, soffio, che dà movimento. Dove si crede non a ciò che è, ma a ciò che si vede: si crede non alla “cosa in sé”, ma alla sua rappresentazione. Poiché è ai nostri sensi che le cose appaiono; è in loro potere la “lucente bellezza del mare, del sole, della terra”. Per loro le emozioni possono travolgere l’indifferenza.
E nel movimento perpetuo, o meglio nel mutamento sta quel particolare “senso greco del divenire”. Da “Io cedo al sogno”: “Tu vedi il mio sorriso sfaldarsi / ad ogni tramonto/ e la forza svanire/silenziosamente/ nelle mie sere.” E’ nichilismo, inteso non come visione negativa di tutto; non nel senso leopardiano del nulla, vale a dire l’indifferenza e la noia, il “taedium vitae”; non il pessimismo storico di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”- di Pavese abbraccerà poi ne “Il colore del mare”, silloge, 2012, inedita, certa metrica stilistica. Ma quel nichilismo inteso appunto alla maniera dei greci: l’uscire dal nulla e rientrare nel nulla; o, se vogliamo, con Eraclito, emergere dal tutto e ritornare nel tutto.
Ciò non è negativo poiché ci conduce a una chiara consapevolezza della nostra condizione umana, dove potere, ambizione, diritto divino….cedono le loro velleità alla conoscenza ineffabile. In Donatella questo nichilismo viene addolcito attraverso la memoria. La suggestione di Paolo Bertolani, importante poeta ligure, coinvolge, come lei mi confessa, certa sua poesia. “I pini frustati dal vento” è quasi un’evocazione all’oltretomba.
“Non è vero che i morti ci lasciano”.
E’ un interrogarsi… forse meglio un riflettere sulla vita, magari cercando di rimuovere quell’autenticità dell’essere-per-la morte. I morti vivono ancora accanto a noi;si sentono i loro rumori, i rumori degli antenati in una sensazione fantasma. Il ricordo a volte è così vivo da percepirne la presenza. Questa poesia è dedicata a Portovenere; è stata scritta fisicamente a Portovenere. Come il pittore dipinge sul luogo, così il poeta scrive sul luogo, per omaggiarne la bellezza, per gustarne meglio le emozioni.

L’idea di felicità

In questo mondo da sempre senza governo, Donatella si affaccia a quella finestra lasciata aperta dalla poesia dell’inizio del secolo scorso, dove scaturì la reazione al positivismo. Crollava la fede nella scienza ( o meglio dell’uso che l’uomo può fare della scienza), l’uomo scopriva il male di vivere. Nel caso attuale è la mediocrità dilagante di una civiltà impostata su regole di mercato. Una civiltà che ancora idolatra valori bugiardi; una civiltà presa ad inseguire un maledetto concetto di potere che, non solo in atto ma già in potenza è fatiscente. Il poeta quindi approda alla riflessione dell’anima, nella contemplazione della natura e riscopre la caducità della vita.
“Cane di un tempo che non riesco a tenere alla catena”: sono parole di Paolo Bertolani, che ci ricorda quanto il nostro potere sia ridicolo e vano. Tutto si annulla nel tempo.
“Ti ho perduta,/ non so come,/in una sera d’estate”
dice Donatella riferendosi alla figlia bambina diventata donna. Fare il poeta non è un piacere, è una fatica. Con la sua arma egli intuisce, con mira infallibile, il significato dell’esistenza. Si spinge fino ai limiti per cercare conforto.
Da Pensieri / Frammento:
“Esiste un luogo dove essere felici?....”
Da Pensieri 2 / Frammento:
“Il colore del mare è di una bellezza accecante./ Provo una gioia immensa./ La mia felicità è così grande che ne ho paura”.
L’autrice sente il male di vivere del suo tempo. Per questo scopre la bellezza accecante del mare; la bellezza dei silenzi; nelle prime ore del mattino, nell’odore di salmastro, nelle distanze del mare e del cielo, come distanze tra l’io e la moltitudine. Ma quella che afferra, che lo spirito percepisce, non è il mare, non l’isola, non i pini, non le Rosse illuminate….è l’idea di tutto ciò: l’idea della bellezza.
Ossia di tutto ciò che non può mutare, che sta fisso, incorruttibile. Poiché ciò che cambia è dolore. “Perch’io te non amai, ma quella Diva”, rivolge Leopardi ad Aspasia, con sdegno. Cioè, non te donna amai, ma l’idea, l’idea dell’amore, immutabile, eterna.
Per raggiungere la felicità è necessario allontanarsi da ciò che muta e quindi raggiungere uno stato materiale e psichico di assenza del dolore. Ma non è semplice perché si è irretiti nei problemi quotidiani, nelle paure imponderabili, nei desideri mai raggiunti, o raggiunti e da altri sostituiti.
“Spazi vuoti/nei quali/affonda il desiderio/Scomparirebbe dal tempo/anche l’ultima notte,/se insieme, ubriachi, storditi, /facessimo il giro dei locali..”
Oltre la razionalità, oltre la fatica di questa vita, ebbri come ubriachi potremmo dimenticare anche il tempo, il tragico divenire delle cose, e uscire dalla prigione del mondo, liberarci dai nostri pesanti fardelli. Bisognerebbe ritrovare l’ingenua incoscienza immune di ambasce e presagi, ma il processo è irreversibile. La “stagion lieta”, il “giorno d’allegrezza piena”, sfioriscono prima di sera. Così conclude il poeta:
“Fuori da qui, dalla prigione / che ovunque inutilmente mi tiene, / ..è la luce della bella stagione…/la stagione inevitabile che viene, come le altre, / a sfiorire sulle terrazze e sui giardini, / mentre il tramonto / declina i suoi colori.”
                                                                              Luigi Leonardi

Da “Passiflora” Poesie, di Donatella Zanello
Editore Ibiskos di Alessandra Ulivieri, Empoli, 2006:

Risveglio

Stamani al risveglio
il cielo era così lieve
e così doloroso il peso
della vita nel corpo.

Solo il sentimento
apre le porte
all’eterno, al vero.

Lontani marosi
a  Portovenere,
al di là dell’isola,
le Rosse illuminate
dall’alba, nel silenzio.

Un peschereccio
doppia la punta
del molo, avvolto
nel volo affamato
dei gabbiani.
  
            Donatella Zanello
                                                                     
“ PASSIFLORA” , Poesie, 2006
 Ed. Ibiskos diAlessandra Ulivieri, Empoli.

Scheda:prefazione di Cristiano Mazzanti
                    
PREFAZIONE

Liguria:gli ossi di seppia di Montale, limati dalla luna, scintillano sotto il morso del mare che scava golfi nella terra e nell’anima.
La raccolta di questa scrittrice per molti motivi si inserisce nel filone della poesia ligure marinara e la penna si trasforma in gabbiano “affamato”di parole di vita. Il paesaggio ed il sentimento, il cielo con le sue dinamiche di sogno e la pesantezza della “vita del corpo”. I rientri e gli affondi di tutta la costa fino alla solennità ieratica di Genova si alternano come la linea sinusoidale delle emozioni che si snoda nei versi “la tua libertà e la tua assenza”: gli affetti come il mare che abbraccia e si ritrae lasciando l’infinito di fronte alla riva abbandonata, “ritaglio del paesaggio del mondo”.Accanto agli “idilli” di contemplazione profonda che raggiunge la paura della felicità nello  sperdersi abissale dentro il mare, balzano a volte improvvise immagini “cinetiche”legate al treno descritto per la prima volta come speranza lanciata nel futuro, fuori dal tunnel dell’anima.La dilatazione dell’affetto, in alcune composizioni quasi disperata verso una dissolvenza nikilista, viene accompagnata anche da efficaci descrizioni degli amori familiari con i loro riti di crescita e di distacco,come nella meravigliosa descrizione alla fine “dell’estate” (quella adolescenziale) con la mano che scivola dalla guida materna (in quello “scivolare” c’è tutta la delicatezza della partenza ma anche tutta la sua inesorabilità)e lo sguardo della figlia si trasforma in quello di “una donna sconosciuta”.
Anche l’icona della madre è compresa nei ritratti di famiglia con una foto vivace, in bianco e nero senza ingiallire: “bei capelli neri” in contrasto con la “pelle di porcellana”.
Tipica della poesia di Donatella Zanello è la fusione di cose, paesaggi, sentimenti nel crogiuolo artistico delle proprie emozioni e la saldatura poetica conferisce una particolare forza, quasi scultorea, icastica,alle immagini “nuda nella mia carne”, “la luna sulla pelle” ed in “Spazi vuoti” la disperazione viene descritta nel “fare il giro dei locali/come barche/attraccate alla riviera”.
 La resa finale al porto scorre davanti al lettore come le imbarcazioni “totali” di Egon Schiele in un suo paesaggio.
Un augurio finale per tutti viene da una frase nascosta ne “l’isola dei pirati”:  che queste pagine siano vele di ottimismo di vita perché “la causa dell’esistere / potrebbe anche essere il niente”…. Ed  occorre avere “fede nella luce”.

                                                                                                               Cristiano Mazzanti

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