domenica 7 ottobre 2012

LA NATURA MORTA NELLA PITTURA: del Critico d'Arte Valerio P. Cremolini -

Il venticinquesimo anno di attività espositiva della sezione spezzina dell’Unione Cattolica Artisti Italiani si è avviata sabato scorso 6 ottobre con l’inaugurazione della collettiva sulla “Natura morta”, allestita nella sede del Circolo Culturale “A.Del Santo” di via don Minzoni, 62. Gli espositori hanno realizzato specifici lavori dedicati a questo genere artistico che nel XVI secolo ha acquisito una significativa importanza, in parte confermata nei secoli successivi. Con i loro tipici linguaggi sono esposte nell’ampia esposizione, introdotta da Valerio P.Cremolini con un excursus storico-artistico sul tema della rassegna, opere di Rossella Balsano, Guido Barbagli, Luigina Bo, Antonella Boracchia, Ferdinando Brogi, Ezia Di Capua, Pina Gentile, Neddi Gianrossi, Anna Maria Giarrizzo, Gloria Giuliano, Enrico Imberciadori, don Sergio Lanzola, Marisa Marino, Sergio Maucci, Nina Meloni, Pierluigi Morelli, Graziella Mori, Gianfranco Ortis, Maria Pia Pasquali, Maria Passaro, Maria Luisa Preti, Mirella Raggi, Rosa Maria Santarelli, Giovanni Santernetti, Maria Rosa Taliercio e Carlo Vignale. La mostra è visitabile sino al 20 ottobre prossimo (giorni feriali dalle 17.30 alle 19.30). Pubblichiamo di seguito l’intervento del critico Valerio P.Cremolini.

Non pretendo di affrontare compiutamente il tema della natura morta nella pittura, necessitando di uno spazio ben più ampio di quello che utilizzerò in questa occasione. Cercherò, comunque, di indicarne alcuni caratteri, che nel tempo si sono di volta in volta evidenziati, attribuendo alla natura morta una posizione non più subordinata, ma palesemente autonoma.
L’espressione “natura morta” evoca oggetti inanimati, siano essi frutta, ortaggi, strumenti musicali, fiori, insetti, ecc.), nonché uno stato di silenzio e di immobilità, che si contrappone alla cosiddetta “natura vivente” rappresentata, ad esempio, da dipinti che ritraggono persone. Giorgio Vasari (1511-1574), pittore e precursore degli storici dell’arte, famoso per le Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, documenta l’esistenza di tele con “cose naturali, d’animali, di drappi, d’istrumenti, vasi, paesi, casamenti e verdure”, scrivendo sul pittore e architetto Giovanni da Udine (1487-1564), che fu collaboratore di Raffaello (1483-1520).
In Italia si parla di natura morta verso la fine del 1800, tradotta dall'olandese still-leven (natura in quiete).
Jacopo de Barbari (1445 c.-1516 c), è un ottimo pittore e incisore veneziano, pare allievo di Alvise Vivarini (1442-53/1503-05), a cui viene attribuita la prima natura morta composta da Pernice, guanti di ferro, dardo di balestra, oggi custodita  nella Alte Pinakothek  di Monaco di Baviera. Certamente più noto del precedente olio su tavola è il grandioso Trittico Portinari (1477-78) del fiammingo Hugo van der Goes (1440c-1482), ammirabile alla Galleria degli Uffizi, nella cui parte centrale sono ben visibili due vasi di fiori (gigli rossi, iris bianchi e purpurei, garofani e aquilegia). Anche Hans Memling (1430 c.-1494) ha dipinto, questa volta sul verso di un ritratto, una Natura morta con vaso di fiori.
Nel Cinquecento e nel Seicento è prevalente il significato della natura morta come vanitas vanitatum, omnia vanitas (dall’Ecclesiaste:vanità delle vanità, tutto è vanità). Adiacente ai vasi di fiori o di frutta è riconoscibile un teschio, simbolo del  memento mori e della condizione fuggevole della vita. Alte volte la precarietà dell’esistenza è demandata a candele dalla fiamma debolissima, a petali cadenti, a frutta bacata, all’immagine della clessidra, il tutto per affermare la caducità della bellezza e la ciclicità del tempo che inesorabilmente la consuma.
Grazie all’interesse rivolto diffusamente alla natura morta da artisti europei, questo genere, rappresentato, come detto, anche da strumenti musicali, protagonisti delle tele del sacerdote-pittore bergamasco Evaristo Baschenis (1617-1677), raccoglie numerosi ammiratori, garantendo alla natura morta indipendenza, popolarità e successo.
Caravaggio - Canestro di frutta 1599
Caravaggio (1571-1610) esegue nel 1595-1596 il celebre Canestro di frutta (1599) della Pinacoteca Ambrosiana, già compreso nella collezione del cardinale Federigo Borromeo (1564-1631), nel quale il pittore “indaga ogni aspetto della realtà rappresentata e indugia sulla mela bacata, sulle foglie accartocciate o mangiate dai vermi”. (C.Lachi) Il dipinto, dalla consistente valenza simbolica,  venne accolto come “un’autentica novità perché la natura viene per la prima volta eletta a soggetto dell’opera, poi perché non sono più le presenze ideali ad essere scelte come testimoni stilistici, bensì quelle reali e naturali”. (on line: www.francopolo.it)
Un piccolo quadro Fruttiera con pesche del pittore milanese Ambrogio Figino (1553-1608), assegnato tra il 1591 e il 1594, lo si considera precedente al più famoso Canestro di frutta di Caravaggio.
Non va trascurata, sempre nel sec.XVII, la qualità tecnica di eccellenti pittori di scuola fiamminga e olandese, tra cui Pieter Claesz (1598-1661) e Willem Claesz Heda (1594-1680), autori di opere, nelle quali una straordinaria luminosità dettaglia porcellane, cristalli e coppe in metallo, così hanno successo le nature morte, spesso con  fiori, di Ambrosius Bosschaert il Vecchio (1573-1621), nativo di Anversa e del fiammingo Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625). Restiamo in Olanda per richiamare la straordinaria figura di Johannes Vermeer (1632-1675) - attualmente alcune sue opere sono in mostra a Roma alle Scuderie del Quirinale -  ritenuto, e non si può che essere d’accordo, per l’atmosfera silente che avvolge le sue composizioni, dove emerge un amalgama fra persone e semplici oggetti in uso nella quotidianità  “il più grande pittore di nature morte umane”.
La Spagna ha in Francisco de Zurbaran (1598-1664) un abilissimo interprete di nature morte, composte da brocche in terracotta, piattini in metallo, arance, limoni, disposti in cesti di vimini.
La natura morta perde gradualmente la consueta carica simbolica e gli artisti si dedicano anche al ritratto, al paesaggio e all’interpretazione della vita domestica e si va delineando quella libertà creativa che contrassegnerà non poca pittura del XIX secolo e di quelli successivi. Nel secolo precedente spicca il francese Jean Baptiste Chardin (1699-1779). Nelle sue nature morte, caratterizzate da efficaci rapporti di luce e colore,  vive un clima di raccolta contemplazione.
In Italia, ma non solo, ha consenso il cremonese Vincenzo Campi (1536-1591), tanto che “le sue nature morte non solo erano tenute in alto pregio a Milano, ma anche in “infiniti altri luoghi in Italia et anco in Ispana, dove molte erano state mandate”. (Stefano Bottari) Anche il bolognese Annibale Carracci (1560-1609) è considerato un iniziatore di tale genere con la singolare “Bottega del macellaio” (1585), nella quale il pittore ha descritto con esemplare attendibilità lo svolgimento delle varie attività che vi si svolgono. 


Fede Galizia - Alzata con prugne, pere e una rosa 1602
Nature morte con frutta e fiori dipingono i romani Tommaso Salini (1575c-1625), particolarmente influenzato dalla pittura di Caravaggio, che pare vicino al suo carattere, e  Michelangelo Cerquozzi (1602-1660), mentre nel 1602 s’impone la pittrice milanese Fede Galizia (1578-1630) con una Alzata con prugne, pere e una rosa.. Replicherà il tema, lavorando a fianco del collega cremonese Panfilo Nuvolone (1581-1651), spesso identificato con la Galizia, la quale, per lo storico Flavio Caroli “delega gli oggetti a rappresentare il suo mondo interiore, attraverso una meditazione formale rigorosisima, con virtuosismi nell’uso della luce. Siamo in presenza di un’artista eccelsa tout court”.
Nel Seicento si distinguono, inoltre, esperte pittrici come Giovanna Garzoni.(1600-1670), nativa di Ascoli Piceno, la cremonese Margherita Caffi (1650-1710), apprezzabili le ghirlande di fiori che contornano volti, animali e fontane e la veneta Elisabetta Marchioni (1600-1700), conosciuta per composizioni floreali disposte dinanzi a vedute paesaggistiche.
Il medesimo secolo annovera altre figure non marginali, quali Paolo Antonio Barbieri (1603-1649)  fratello di Giovanni Francesco Barbieri (1591-1666), detto il Guercino, i napoletani Giuseppe Recco (1634-1695) e Giovan Battista Ruoppolo (1629-1693, il bolognese Giuseppe Maria Crespi (1665-1747) e il reggiano Cristoforo Munari (1667-1720). Anche l’eccellente vedutista settecentesco Francesco Guardi (1712-1793) è autore di tele con vasi e canestre di fiori.
L’odierna esposizione promossa dall’Ucai sulla natura morta mi induce a ricordare, ad un mese dalla scomparsa, l’ingegner Amedeo Lia (1913-2012), persona di rara competenza artistica e di altrettanta generosità. Come è noto una sala del Museo “Lia” allinea opere di grande valore estetico, dedicate alla natura morta, eseguite da alcuni dei rinomati artisti sopra citati.
Sono altrettanto celebri lo spagnolo Francisco Goya (1746-1828), certamente meno noto come pittore di nature morte, i francesi Camille  Corot (1796-1874), Eugène Delacroix (1798-1863), Gustave Courbet (1819-1877), Henri Fantin-Latour (1839-1902), gli impressionisti Eduard Manet (1832-1883),  Claude Monet (1840-1926) e Pierre Auguste Renoir (1841-1919). Paul Cezanne (1839-1906) introdurrà un’impostazione non tradizionale, come faranno in seguito, affermando esigenti ricerche individuali, Vincent Van Gogh (1853-1890), Pablo Picasso (1881-1973) e George Braque (1882-1963), solo per citare alcuni ragguardevoli artisti. Infatti, precisa Marilena Pasquali, curatrice nel 2007 della mostra Oltre l'oggetto. Morandi e la natura morta oggi in Italia (Museo Michetti, Francavilla al Mare) “se la natura morta fino a metà Ottocento è mimesi o simbolo, con Cézanne e dopo di lui diviene campo di indagine e di riflessione; se prima è virtuosismo, dopo è interpretazione; se in antico gronda sensorialità, nel Novecento si smaterializza e perde di fisicità, non pittorica, concettuale; se prima rifiuta l'azione scenica negli ultimi cent'anni può essere intesa come un palcoscenico che accoglie e comprende gli oggetti-attori, ora protagonisti ora comprimari di una scena che, in apparenza, è tutta loro”.
Il Novecento, il nostro secolo, consacra l’estesa differenziazione formale, per cui anche la natura morta diventa occasione non episodica di sperimentazione, che caratterizzerà la vivace e articolata stagione delle avanguardie storiche.
Giorgio Morandi - Natura Morta 1929
In questa parziale panoramica non può essere omesso il nome di Giorgio Morandi (1890-1964), superbo interprete della natura morta, esaltata, è il caso di dire, da bottiglie, brocche, vasi di fiori, e lumi, oggetti di una concezione della rappresentazione inderogabilmente sostenuta dall’ordine, dalla semplificazione della forma e da delicate varianti cromatiche. Nella natura morta l’artista bolognese sapeva esprimere il senso della vita, rivelandone il suo rapporto e su quei comuni oggetti indirizzava una profonda e silenziosa meditazione esistenziale.
In altra occasione, con più tempo a disposizione, ci sarà modo di avvicinare ulteriori figure della pittura italiana che meritano riguardo. Penso a Arturo Tosi (1971-1956), Ardengo Soffici (1879-1964), Giorgio de Chirico (1888-1978), Alberto magnelli (1888-1971), Ottone Rosai (1895-1957), Mario Tozzi (1895-1979), Filippo de Pisis (1896-1956), Renato Birolli (1905-1959), Giuseppe Santomaso (1907-1990), Ennio Morlotti (1910-1992), Carlo Mattioli (1911-1994), Renato Guttuso (1912-1987), Bruno Cassinari (1912-1992), Aligi Sassu (1912-2000), Alfredo Chighine (1914-1974), Alberto Burri (1915-1995) e ad altri pittori di generazioni successive che hanno confermato la loro identità e indipendenza artistica anche attraverso autorevolissime interpretazioni della natura morta.
( Le immagini contenute nel testo sono tratte da Wikipedia, enciclopedia multilingue libera e collaborativa )

Valerio P. Cremolini


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